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Cinquefrondi (Reggio Calabria) – Mentre gli studenti del Liceo Musicale protestano (doverosamente) per avere una sede decorosa dove svolgere il proprio ruolo le istituzioni che fanno (?) non trovano miglior risposta se quella consueta di aprire le danze dei comunicati stampa, dilettandosi nello sport nazionale dello scaricabarile. Siamo in Italia e dunque succede puntualmente sempre così. Ma se i liceali, sabato 29 scorso, non avessero nuovamente protestato, gli attori istituzionali avrebbero acceso comunque i riflettori sulle pessime condizioni in cui oramai - da anni – questi si ritrovano a barcamenarsi per cercare di portare a termine (il più dignitosamente e fruttuosamente possibile) l’anno scolastico, o magari avrebbero tenuto in congelatore la contestazione "alla bisogna", per tirarla fuori dal cassetto al minimo accenno di rivolta degli allievi?
A genitori e studenti – francamente – importa ben poco delle pastoie burocratiche che frenano, limitano, fiaccano, moderano, imbrigliano l’avanzamento di un progetto che sembra aver quasi assunto sembianze utopistiche e che - da anni – giace forse impolverato e magari pure in bella vista su qualche tavolo tecnico alla Provincia o chissà dov'altro. A loro interessano fatti e risposte. E, a dire il vero, si deve prendere atto delle beghe circoscritte nel triangolo letale Provincia-Comune-Scuola che a nulla son valse, se non a perdere tempo prezioso per tutti, in primis per gli studenti, che, stretti nella morsa ferale del “vedremo” o peggio del “si vedrà”, sono tutt’oggi costipati in una sede di fortuna affatto idonea a svolgere insegnamenti utili a farli opportunamente «lavorare, per accrescere il proprio bagaglio culturale e prepararsi al futuro nel migliore dei modi».
Francamente il valzer delle dichiarazioni diventa stucchevole, se non addirittura lesivo e contraddittorio, rispetto ad un’annosità patologica nella quale paradossalmente tutti ci rimettono: il paese, gli studenti e le loro famiglie, i docenti ed istituzioni. Un gioco a perdere, alla Tafazzi. Ed anche l’attenuante del “noi l’avevamo detto” serve a poco se non a tacitare qualche coscienza politica. Stranamente, tutti gli attori coinvolti si ritengono d’accordo circa la necessità impellente del non tergiversare su un tema esiziale che alimenta una strategica agenzia culturale per Cinquefrondi, ma irragionevolmente ciascuno – a suo modo – traccheggia. Piuttosto che collaborare sinergicamente e attivarsi con ogni mezzo disponibile per prodigarsi ad agevolare al meglio la difficile condizione sopportata da allievi, docenti e genitori per rendere “normale” la legittima «attività curriculare», si son vanificati anni a disputare sul sesso degli angeli, compiendo pleonastici voli pindarici alla ricerca delle più stravaganti delle giustificazioni che – in atto alla protesta degli allievi - a nulla son valse se non ad aggravare i sacrifici di famiglie intere a cui si è chiesto ed ancora si chiede di perseverare in vane speranze, in attesa che qualcosa di positivo – chissà quando – possa forse accadere.
Signori, il problema vero qui è un altro. E’ quello, semmai, di registrare – ancora una volta – il fallimento della politica, ad ogni livello, che disattende con straordinaria puntualità il recepimento delle naturali istanze dei cittadini a cui da una parte si inculca ragionevolmente l’idea che il processo liberatorio di emancipazione e progresso di un territorio passi e debba passare soprattutto attraverso il matrimonio indissolubile con la cultura e, dall’altra, si mortificano l’abnegazione e le rinunzie di studenti e famiglie costringendoli ad effettuare - loro malgrado - funambolici doppi o tripli salti mortali per arrivare a sfiorare il godimento di un diritto, peraltro, costituzionalmente garantito come quello altissimo del diritto allo studio (art. 3, 33 e 34 Costituzione). Allora, parrebbe buona cosa se gli attori istituzionali – una volta tanto – cessassero la corsa all’arringa migliore e si svegliassero dal torpore atavico che pervade nella sua interezza e ad ogni latitudine la macchina burocratica dello Stato e magari si mettessero di buona lena a dare corso alle naturali istanze degli studenti porgendo loro prima di tutto ascolto e comprensione. Poiché essi non chiedono altro se non di avere quella par condicio rispetto ai loro coetanei europei, di potersela cioè giocare alla pari, per vedere – e non miracolosamente - adempiute quelle stanche promesse di normalità che han finito per condizionarne la quotidianità ma anche a porre un interrogativo in più - se mai ancora ne necessitasse di ulteriori - al ruolo della politica.
Gli studenti non sanno più che farsene di auspici inflazionati. Memoria minuitur, nisi eam exerceas, diceva Cicerone…
Giuseppe Campisi
I Mediterranei e il Mediterraneo nella poesia di Francesco Grisi
a 15 anni dalla scomparsa il 4 aprile
Cutro celebra l’anniversario con Convegno e Premio
di Pierfranco Bruni
Il 4 aprile del 1999 moriva Francesco Grisi. I Mediterranei e il Mediterraneo sono luoghi e saperi, anima e metafore. I mari della terra in Francesco Grisi, di cui ricorre il quindicesimo anno dalla morte, appunto, il 4 aprile prossimo, sono scavi di vita. IL Mediterraneo come luogo di un abitare la geografia dell’anima, dell’esistere, dei paesaggi. In una poesia datata Luglio 1967, ore 18, Francesco Grisi (Vittorio Veneto, 1927 - Todi, 1999) annotava: “Viaggiare non è vedere/viaggiare non è affermarsi”.
Il Comune di Cutro ricorderà questo anniversario con il Premio Grisi e con un Convegno dedicato proprio al Mediterraneo.
Il tema del viaggio, in Francesco Grisi, resta fondamentale. Il viaggio e il viaggiatore. Andare e tornare nelle maree del tempo.
Il viaggio nella poesia e la poesia che si fa viaggio. Poeta del viaggio. Poeta del ritorno. Un linguaggio che si abbandona al racconto e si lascia ascoltare non con una tensione narrante ma con un battuto lirico che ha richiami di antichi segni metaforici. Il raccontare è soltanto un incidere nel linguaggio anche se la punteggiatura resta comunque nella cadenza poetica.
La poesia di Francesco Grisi è una recita costante che si definisce su alcuni riferimenti di fondo. La materia del linguaggio è parola vissuta, sofferta, angosciata. Il linguaggio è un’onda di nostalgia che si intreccia a delle dimensioni oniriche che ritrovano eredità messianiche e approfondimenti ellenici.
La Calabria di Pitagora o il cielo della Magna Grecia rendono alcune delle tante fisionomie del Mediterraneo:“Il Mediterraneo/è la mia piazza infinita”.
Qui, nella poesia di Grisi, non è soltanto un luogo geografico, ma è soprattutto un luogo dell’essere che si manifesta attraverso gli strumenti della poesia. Una poesia che ha suoni ed echi a volte andalusi che si dichiarano in un progetto di vita che sprigiona tenerezza, confessioni di amori, cammini che solcano il tempo.
I luoghi del tempo sono, infatti, i luoghi di quella poetica del mito che si intreccia con i giochi della memoria. I ricordi sono nella memoria. E’ profondamente una poesia della memoria. Una poesia del viaggio e del ritorno.
Il cerchio infinito, metafora grisiana, che è il sentiero metaforico di una circolarità del tempo non vive solo dentro la concezione della vita ma è parte integrante di una visione della letteratura nel rapporto con il tempo e con la vita stessa.
L’amore, la fede, il viaggio, il tempo-mito sono dei “dettagli” che costruiscono la poetica di Grisi. E il linguaggio è quello che viene recuperato dalla sua prosa e trasformato nella metafora lirica.
Francesco Grisi resta profondamente un poeta. Un poeta dei colori. Un poeta che realizza immagini ma sa catturare, con i fantasmi delle parole che si agitano tra un salire e uno scendere tra i versi e nell’intreccio dei ricordi, intercettazioni oniriche.
Quelle intercettazioni oniriche che rendono comprensibile la pazzia. L’amore, la fede, le avventure girano nell’immenso misterioso della pazzia. Un percorso pavesiano è dentro il senso poetico di Grisi ma ci sono verniciature lorchiane che sprigionano, appunto, il vento di un Mediterraneo che non abbandona mai la liricità della sua poesia.
Il pavesismo: “Al termine/del giro - cerchio ci accorgeremo/che c’è il nulla. O il tutto./Il nostro incontro è un gioco…/ Nella sera hai tremato”.(da “Stanotte hai detto che il giorno”).
Ma Grisi ha una sua autenticità di fondo. Le parentele formano la intelaiatura letteraria, formativa, critica. Ma il poeta ha una voce autentica e originale soprattutto per la misura del verso e per il metro del linguaggio. Linguaggio che diventa vita e tempo. Il mare e il deserto sono le metafore che hanno un significato certamente poe-tico ma anche culturale. L’incontro tra la cultura dell’Occidente e quella dell’Oriente.
La donna orante, la donna preghiera, la donna viaggio, la donna attesa, la donna peccato, la donna amante rappresentano tutte la donna profezia ma anche la donna nostalgia: “Vorrei amarti in un dolciastro tramonto/nella gialla foresta dei girasoli” (da “Risvegli improvvisi”).
L’uomo con il suo bisogno di rivelazione e di redenzione ha un suo cammino specifico e recita senza maschere la nudità del sentimento. Un sentimento che condensa manifestazioni di tempo.
Così in “Nel pensiero di te”: “Nel pensiero di te incontro il peccato./Il desiderio corrompe il sogno./Il fantasma nell’attesa è più del reale./I baci finiranno dopo la notte./E le mani geleranno per paura./Ti guardo. E mi accomodo con il tuo fantasma./Deserto e cielo. Carovane promesse./Mi perdo. E non mi trovo nel risveglio./L’amore è sogno che resta eterno./E’ strano come tu possa resistere/In questo mio amore cattolico./Forse il cuore non chiede ricompense./L’abitudine è la nostra terra peccaminosa”.
E’ una delle poesie che rivela una straordinaria tensione lirica e sentimentale. Un vissuto che entra nella parola e viceversa. Un vissuto che comunque non lascia trasparire quella storia raccontata come cronaca.
Quest’amore immenso che segna nel tempo il poeta e l’uomo in un linguaggio (ovvero in una semantica di perfetta eleganza nell’originalità dell’offerta stilistica) che si fluidifica e trasmette incanto e immagini. Questa pazzia dell’amore peccaminoso vissuto però con la bellezza che si addice al poeta fa coppia con i temi di un ellenismo marcato, nel quale il ritornare alle appartenenze perdute, alle radici, alla terra è un costante singulto dell’anima. L’isola dell’anima.
Il ritorno all’isola, al paese, al centro di una identità riporta una linea mediterranea di matrice kavafisiana ben indicata.
L’Itaca che è ritorno in Grisi ha un valore mitico ma anche cristiano. Di una cristianità paolina. Il senso di morte è un “sentimento” di comunione che diventa un “affettuoso sentiero”. Affettuoso sentieroè appunto il titolo di un suo libro di poesie risalente al 1994. Mentre le poesie di Un amore sono del 1992.
L’amore, dunque. L’amore sogno che racconta una favola. Ma il tempo del sogno ci riporta al viaggio. La vita come viaggio nella letteratura che è viaggio grazie ad una indefinibile nostalgia.
La poesia di Grisi si traccia proprio attraverso l’indefinibile nostalgia in una memoria che continua la sua recita oltre la vita stessa. Restano i segreti nel misterioso incanto:
“Ho segreti da custodire. Teneramente” (da “Nel confine della solitudine” in Affettuoso sentiero).
Non solo metafora. Ma il misterioso, come si diceva, che gioca in quel cerchio magico che raccoglie il tempo. Il mare, i ritorni, le partenze, la provvisorietà sono singulti dell’anima. Spazi indefinibili nel cerchio dell’infinito.
Francesco Grisi è un poeta del viaggio nel tempo che intreccia i fili di un tempo che è memoria, magia e nostalgia.
Poesia della nostalgia? Poesia nel destino dei segni che incidono solchi. Tutta la nostalgia di Grisi è nostalgia del centro e del labirinto. Il labirinto non è solo grecità. È Oriente che incontra l’Occidente. Ovvero è l’incontro dei Mediterranei.
Pierfranco Bruni e Francesco Grisi, 1997
Un saggio, due Video della Rai e una lettera inedita per il
“Giuseppe Berto e la necessità di raccontare” di Pierfranco Bruni
in un legame letterario tra D’Annunzio e Berto
D’Annunzio e Berto. Una chiave di lettura nel libro di Pierfranco Bruni dedicato a Giuseppe Berto. Una lettera inedita di Giuseppe Berto a Francesco Grisi risalente al 1967, due Spazi culturali andati onda sulla Rai il 2010 e il 2011, curati da Pierfranco Bruni, e un saggio dal titolo: “Giuseppe Berto e la necessità di raccontare” sempre di Pierfranco Bruni sono appuntamenti per celebrare il centenario della nascita di Giuseppe Berto. Nato nel 1914 e morto nel 1970.
Si tratta, sottolinea Pierfranco Bruni, di un centenario per raccontare la letteratura italiana del secondo Novecento. Giuseppe Berto resta uno scrittore che ha attraversato precisi generi letterari. Dalla ‘forma’ neorealista, che tale non è alla luce di una rilettura estetica, ad uno scavo che è chiaramente psicologico. Ma in tutto questo attraversamento ci sono tre aspetti rilevanti: il linguaggio, la struttura dei testi, il suo confrontarsi con una visione metafisica della vita. Nonostante la storia sia presente viene completamente attraversata e superata perché alla fine restano i personaggi a raccontare il tutto. Da ‘Anonimo veneziano’ a ‘La Gloria’. Uno scrittore importante in un Novecento che si appresta a rileggere la sua temperie e la sua letteratura”.
Su questo autore Pierfranco Bruni, vice presidente nazionale del Sindacato Libero Scrittori e Presidente del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”, in una recente conferenza stampa, ha illustrato le problematiche del saggio e il contenuto dei due Video oltre a mostrare la lettera inedita di Berto a Grisi.
“Un romanzo chiave degli anni Settanta resta proprio ‘Anonimo veneziano’, che con “Disamore” di Bigiaretti ed “Eutanasia di un amore” di Giorgio Saviane costituisce, cesella Pierfranco Bruni, un modello di esistenzialismo disarmante davanti all’amore tra l’inquietudine, l’ambiguità e il tragico. Nel romanzo di Berto è il tragico che trionfa. Un tragico che rimanda a D’Annunzio. Con Berto entriamo nel profilo letterario dannunziano. Credo che il legame tra D’Annunzio e Berto resti fondamentale soprattutto nel breve romanzo “Veneziano”.
Il saggio di Pierfranco Bruni apre un dibattito sul ruolo dello scrittore e l’importanza della metafora tra linguaggio e forme narranti.
“Riproporre Giuseppe Berto a cento anni dalla nascita, sottolinea Pierfranco Bruni, autore dello studio, significa anche contestualizzare un profilo del Novecento letterario e culturale tout court attraverso libri che hanno segnato generazioni. È necessario rileggere romanzi che hanno fatto discutere in anni di transizione come: “Anonimo veneziano” e “La gloria”. Due libri che ancora oggi propongono una chiave di lettura anticonformista e autenticamente dentro un Novecento da rileggere”.
“In Giuseppe Berto, dichiara ancora Bruni, si vive un intreccio non solo letterario, ma anche esistenziale e psicologico tutto giocato tra amore e morte. Ovvero tra la capacità dell’amore di farsi definizione ancestrale di un modello di vita, che ha in sé il senso del destino, e la realtà della morte che diventa, nei suoi scritti, sempre più consapevolezza di un andare nel di dentro della vita stessa senza la paura della perdita.
Nel 1947 esce Il cielo rosso. Una storia il cui segno politico è preciso. Ma ci sono altri libri che sottolineano il rapporto sempre più profondo, appunto, tra la morte come consapevolezza di definito e la vita come attesa del definire.
“Il male oscuro” del 1964 segna, comunque, il suo punto di riferimento non solo letterario, ma anche esistenziale. È “Il male oscuro” che rende Berto scrittore “nuovo” in un contesto in cui il legame letteratura e psicanalisi costituiva un dialogo sempre aperto e discutibile. Ci sono i libri di memoria come quello già citato del 1947 e poi “Guerra in camicia nera” del 1955. Altri come “Il brigante” del 1951. Al 1978 appartiene “La gloria” in cui c’è un rapporto costante tra Gesù e Giuda.
Del 1966 è “La cosa buffa”. Un romanzo d’amore che, comunque, non raggiunge quella tensione lirica alla quale lo stesso Berto tendeva. È con “Anonimo veneziano”, negli anni Settanta, che l’incontro tra amore e morte trova la sua più inquieta profondità.
Il governo dice che la scuola è uno dei settori su cui investire per la ripresa dell’Italia, nella realtà spariranno 14 cattedre in Abruzzo, 58 in Basilicata, 183 in Calabria, 387 in Campania (visto anche che, dopo la chiusura della piattaforma per le iscrizioni alle prime classi, a Napoli 6.000 iscritti in meno per il prossimo anno scolastico), 33 in Molise, 340 in Puglia, 27 in Sardegna. Tranne l’Umbria, dove vi sarà un decremento di appena 11 posti, tutte le altre regioni del Centro-Nord avranno invece un numero maggiore di docenti mentre in realtà il Meridione e Isole avrebbero bisogno di più docenti e risorse, perché presentano tassi di dispersione altissimi.
Nel prossimo anno scolastico gli studenti iscritti saranno ben 33.997 in più di quello attuale. Tuttavia, per effetto del blocco all’organico di diritto previsto dalla Legge n. 122/2012, il numero degli insegnanti sarà sempre lo stesso: 600.839. Come nel gioco delle tre carte, poiché gli organici non possono essere modificati e gli alunni in talune regioni aumentano, spostiamo cattedre da una regione all’altra. A saldo invariato. Ma se il totale rimane immutato, c’è comunque chi guadagna. E, inevitabilmente, chi perde. Peccato che a perdere insegnanti saranno solo le regioni del Sud
Scorrendo gli ultimi dati forniti dalla Ragioneria Generale dello Stato, si è scopre infatti che tra il 2007 e il 2012 il personale della scuola ha perso oltre 124 mila posti (facendo registrare un -10,9%): da 1.137.619 unità di personale si è passati a poco più di un milione. Con gran parte di questi posti persi che appartengono al corpo docente. Anche se il numero di alunni tra il 2009 e il 2012 è aumentato di 90.990 unità, quello degli insegnanti si è ridotto del 9% passando “da 843 mila a 766 mila: una riduzione – ha rilevato di recente la Fondazione Agnelli – che ha toccato in eguale misura tutti i gradi scolastici, con l’eccezione della scuola dell’infanzia, e ha riguardato in modo più vistoso i docenti con un contratto a tempo determinato (-25%), mentre quelli di ruolo sono scesi del 6%”.
Sempre dal rapporto della Fondazione Agnelli è emerso che, soprattutto a seguito delle “misure volute dai ministri Gelmini e Tremonti con la legge 133/2008”, sono state riscontrate “importanti differenze regionali, con province del Sud, dove la popolazione studentesca è in forte calo, che hanno registrato diminuzioni dei docenti di ruolo fino al 18%”. I tagli maggiori al corpo docente di ruolo hanno riguardato tutte province del Sud: Frosinone, Matera, Avellino, Messina, Catanzaro, Cosenza, Potenza, Nuoro, Reggio Calabria e Isernia.
Inoltre, scorrendo l’ultimo rapporto territoriale Abi–Censis, realizzato su dati Istat, si scopre che l’area dove lo “squilibrio socio-economico” è maggiore è quella del Mezzogiorno. E lo stesso, tranne rare eccezioni, vale per quelle che hanno il più “basso tenore di crescita” a livello di “potenzialità rurale” o che sono “a rischio involuzione”. Mentre i territori dove c’è maggiore possibilità di crescita e sviluppo sono quelli del Nord, in particolare il Friuli, il Trentino, il Veneto, la Lombardia e il Piemonte. Con il settentrione che fa quindi “da traino”.
È tutto dire che il Cnel, elaborando dei dati Istat, ha denunciato che se in Italia il ciclo formativo si interrompe già molto presto, il 18,2% dei giovani con meno di 16 anni rispetto al 12,3% della media europea, al Sud, in particolare in Sicilia, Sardegna e Campania, un giovane su quattro lascia precocemente gli studi. Esemplare quanto accade in alcune province, come quella di Napoli, dove negli istituti tecnici la percentuali di studenti che risultano dispersi nel quinquennio supera il 45%. E il Ministero che fa? Riduce il corpo insegnante: è incredibile”.
Tutti questi dati dimostrano che gli attuali criteri sulla formazione dell’organico dei docenti, derivanti dal D.P.R. 81 del 2009, con gruppi-classi che possono raggiungere 27-28 alunni, non possono essere adottati nelle aree disagiate e a rischio. Per il Sud, in particolare laddove il disagio socio-economico è maggiore, occorre introdurre degli organici con parametri diversificati rispetto alle altre aree del Paese. E per questo occorre prevedere delle risorse aggiuntive, ad iniziare da un diverso rapporto docenti-studenti, facendo così cadere l’unicità degli organici e della formazione delle classi.