Alla fine, tra i tanti litiganti sempre pronti a fare con zelo il proprio dovere di divisione in casa Pd, a goderne potrebbe essere l’ outsider Fabrizio Barca che con contegno e riserbo si è messo ad immaginare un’altra storia possibile per la sinistra italiana. E, partendo dalla propria personale esperienza, Barca attraverso il suo “documento” intende rilanciare una proposta politica nuova, non già figlia dei baronati interni al partito o in balia del lacerante sistema correntizio che più che autoreferenziale s’è dimostrato autodistruttivo specie nel contrapporre il conflitto generazionale alle vecchie autarchie assiomatiche aprioristicamente assimilate come verbo assoluto. Dunque, nel suo viaggio in Italia, Fabrizio Barca sta iniziando pian piano a seminare il suo di verbo, con contenuti aventi a caposaldo un certo divorzio dei partiti dagli apparati statali che ne hanno contraddistinto - egli riporta ne suo documento - da sempre, l’agire, «perversamente affratellati, fino al “catoblepismo”», che hanno deviato dalla loro originale missione per votarsi al «perseguimento crescente di beni particolari anziché del bene pubblico».
L’ex ministro del governo Monti, invece, suggerisce come via d’uscita lo sperimentalismo democratico, in una combinazione fatta di confronti e discussioni corredati di una continua verifica delle decisioni. Un modo di fare politica che sembrerebbe raccogliere il favore di molte “teste coronate” del partito, soprattutto dell’area moderata in perdurante frizione con l’ala più sinistrorsa dalla scissione facile. Franceschini a proposito, non s’è sentito di escludere niente per il futuro, rilevato che questi strappi ad orologeria danneggiano il quadro dei rapporti interni al partito e disorientano l’elettorato incapace di cogliere segnali di stabilità duratura dalla dirigenza nazionale, male atavico dei democratici nostrani. Dunque in quest’ottica Barca avanza l’idea di un partito di sinistra saldamente radicato nel territorio che, alla stregua di un “partito palestra”, sia aperto e dia spazio alla compartecipazione volontaria, poiché – egli ritiene – che solo con i partiti e la politica, e in nessun altro modo (dai sindacati alla rete), sarà possibile rappresentare efficacemente e degnamente le istanze ed i fabbisogni dei cittadini traducendoli in azioni concrete.
Un partito - egli sottolinea nel suo testo - « rigorosamente separato dallo Stato, sia in termini finanziari, che ne renda trasparente metodo di raccolta e impiego dei fondi, sia prevedendo l’assoluta separazione fra funzionari e quadri del partito ed eletti o nominati in organi di governo». Insomma un partito attraente quanto incentivante, scevro da beghe e lotte endogene. Tutt’altro che quello attuale, impegnato al pluralismo nichilista, alle battute di tiro al piccione, all’attuazione di vendette trasversali che cercano di ghigliottinare il fermento innovativo che tenta di attecchire, attento a difendere vecchie rendite di posizione, cimeli d’una eredità da nobiltà decaduta che stenta a rigenerarsi. In quest’ottica, Barca, potrebbe rappresentare degnamente l’alternativa da colletto bianco allo yuppies Renzi, che ben vende la sua immagine attraverso una comunicativa apparsa gravida di buoni pensieri vieppiù indecifrabili nella loro attuazione, per di più inviso ad una larga fetta del partito scarsamente propenso a fargli endorsement. A meno che per l’ex ministro per la coesione territoriale non si riproponga il dilemma universale che fu per Bersani, Prodi e Occhetto. Quello cioè, dopo tante fatiche, di raccogliere magro, di essere l’ulteriore candidato, benché adeguato, però predestinato – a forza di boicottaggi e lacerazioni intestine – ad appuntarsi la poco ambita medaglia di miglior “perdente di successo”.
L’ex ministro del governo Monti, invece, suggerisce come via d’uscita lo sperimentalismo democratico, in una combinazione fatta di confronti e discussioni corredati di una continua verifica delle decisioni. Un modo di fare politica che sembrerebbe raccogliere il favore di molte “teste coronate” del partito, soprattutto dell’area moderata in perdurante frizione con l’ala più sinistrorsa dalla scissione facile. Franceschini a proposito, non s’è sentito di escludere niente per il futuro, rilevato che questi strappi ad orologeria danneggiano il quadro dei rapporti interni al partito e disorientano l’elettorato incapace di cogliere segnali di stabilità duratura dalla dirigenza nazionale, male atavico dei democratici nostrani. Dunque in quest’ottica Barca avanza l’idea di un partito di sinistra saldamente radicato nel territorio che, alla stregua di un “partito palestra”, sia aperto e dia spazio alla compartecipazione volontaria, poiché – egli ritiene – che solo con i partiti e la politica, e in nessun altro modo (dai sindacati alla rete), sarà possibile rappresentare efficacemente e degnamente le istanze ed i fabbisogni dei cittadini traducendoli in azioni concrete.
Un partito - egli sottolinea nel suo testo - « rigorosamente separato dallo Stato, sia in termini finanziari, che ne renda trasparente metodo di raccolta e impiego dei fondi, sia prevedendo l’assoluta separazione fra funzionari e quadri del partito ed eletti o nominati in organi di governo». Insomma un partito attraente quanto incentivante, scevro da beghe e lotte endogene. Tutt’altro che quello attuale, impegnato al pluralismo nichilista, alle battute di tiro al piccione, all’attuazione di vendette trasversali che cercano di ghigliottinare il fermento innovativo che tenta di attecchire, attento a difendere vecchie rendite di posizione, cimeli d’una eredità da nobiltà decaduta che stenta a rigenerarsi. In quest’ottica, Barca, potrebbe rappresentare degnamente l’alternativa da colletto bianco allo yuppies Renzi, che ben vende la sua immagine attraverso una comunicativa apparsa gravida di buoni pensieri vieppiù indecifrabili nella loro attuazione, per di più inviso ad una larga fetta del partito scarsamente propenso a fargli endorsement. A meno che per l’ex ministro per la coesione territoriale non si riproponga il dilemma universale che fu per Bersani, Prodi e Occhetto. Quello cioè, dopo tante fatiche, di raccogliere magro, di essere l’ulteriore candidato, benché adeguato, però predestinato – a forza di boicottaggi e lacerazioni intestine – ad appuntarsi la poco ambita medaglia di miglior “perdente di successo”.
Giuseppe Campisi