Tutti quelli che si sono occupati con animo contrito delle defenestrazione di Enrico Letta, immemori della valanga di accuse che fino al giorno prima gli avevano dedicato, hanno ricordato il costume della Democrazia Cristiana di tenere per poco tempo i suoi uomini migliori alla Presidenza del Consiglio. Io stesso, quando pensavo che Casini avrebbe fatto bene all’Italia, se avesse interrotto il dominio berlusconiano, ho scritto di lui: “Dove hai nascosto, onorevole Casini, il pugnale dei dorotei?”.
Credo necessario mettere in ordine la verità storica su questo costume repubblicano della DC che aveva molto in comune con la brevità delle cariche della Repubblica romana, quando era governata, per non più di un anno, da due consoli, in una con il Senato. O molto in comune con la regola dei ricchi mercanti della Repubblica di Venezia per la quale nessuno poteva sopravanzare gli altri e il Doge non aveva alcun potere.
Quando l’Italia fu liberata e la democrazia ricostituita, il dominio della generazione dei “popolari” era indiscusso. De Gasperi era stato l’ultimo segretario del Partito Popolare; Spataro che lo aveva sostenuto e protetto era autorevolissimo, come il dimenticato Coccia, che era stato il suo avvocato; e poi Scelba, segretario di Sturzo; Iacini, il primo a scrivere sulla storia del PPI; Iervolino, che aveva rappresentato la DC quando il governo di Badoglio si muoveva da Brindisi a Salerno. Alessi che combatteva la sua battaglia contro il separatismo siciliano, con il suo ideale di autonomia, Scelba che era stato il segretario di Sturzo. Piccioni che era stato pilota con Baracca, Gronchi che era stato incolpevole Sottosegretario con il primo Mussolini.
Quando fu liberata Milano una nuova generazione venne alla ribalta con il vento del nord. La DC ne prese atto ed integrò il Consiglio Nazionale con due nomi: uno in rappresentanza del sud, Andreotti; uno in rappresenta del nord, Dossetti. Ambedue avanguardia della seconda generazione. Non potevano essere più diversi tra di loro, come di fatto erano e rimasero, uno a rappresentare il mondo cattolico prudente e potente e l’altro, quello volenteroso e sognante.
La seconda generazione era fatta da uomini tosti, che venivano dalla Resistenza. Taviani aveva raccolto la resa delle truppe tedesche quando Genova fu liberata dai partigiani. Zaccagnini era stato capo partigiano, come Enrico Mattei, come Gui, come Ferrari Aggradi. Lazzati tornava dai campi di concentramento e Fanfani dall’internamento in Svizzera. Durante la Costituente mentre De Gasperi si occupava della difficile navigazione di un governo di larghissime intese e di profonde contraddizioni, la seconda generazione si faceva le ossa nella commissione dei 75, che doveva fare la Costituzione.
Ma dopo la scelta del ’48 che dava alla DC non solo la maggioranza assoluta, ma il difficile compito di gestire una democrazia assediata, si pose subito il confronto fra le generazione dei popolari e la generazione uscita dalla Resistenza, gli uni più preoccupati del mantenimento dell’ordine democratico, gli altri più portati a considerare necessario l’abbattimento dello Stato, che era stato già fascista e già liberale, attraverso un profondo rinnovamento democratico.
Lo scontro fu fra Dossetti e De Gasperi al Congresso di Venezia del 49, con un Rumor chiamato a fare una relazione sulla politica sociale, da contrapporre a Dossetti ed un Taviani chiamato alle prime responsabilità di partito per contrastare Dossetti.
La manovra non riuscì ai “popolari”, che invece provocarono, con il loro atteggiamento, il consolidarsi della unità generazionale. Fu Dossetti nel momento di lasciare la politica ad affidare a Rumor il progetto di riunire quella generazione, con il compito saggio di trattare con De Gasperi ed il compito più ardito dare la leadership a Fanfani.
Al Congresso di Napoli del ’54, dopo la sconfitta (relativa) del ’53, la generazione della Resistenza prese in mano il partito, affidandone la Presidenza a De Gasperi e la Segreteria a Fanfani. De Gasperi ottenne che del vecchio gruppo dirigente fosse salvato solo Andreotti.
Ma non fu una strage. Mentre Fanfani creava il partito moderno, che somigliava al Partito Comunista, con le tessere, con le sezioni, con i gruppi specializzati e coni “collaterali”, al governo andavano i notabili popolari che avevano la loro forza nel gruppo parlamentare. I Presidenti del Consiglio furono Pella, Scelba, Segni, Zoli. Tutti “popolari” e tutti precari, assunti per breve tempo a seconda delle necessità del momento.
Non c’era più la maggioranza assoluta della DC ed il governo cominciò ad avere maggioranze variabili, caratteristica che durerà fino alla fine del secolo.
Anche il “popolare” Gronchi, praticamente scomparso nel Congresso di Napoli che cambiò la classe dirigente della DC, fu eletto Presidente della Repubblica da una coalizione antifanfaniana.
Fanfani vince le elezioni del ’58 ed ha un Partito con dirigenti giovani e con un gruppo parlamentare che è in gran parte formato dalla generazione della Resistenza e tenta di ricostituire la leadership degasperiana.
Assume la Presidenza del Consiglio e l’incarico di Ministro degli Esteri. Per di più mantiene la carica di Segretario del Partito. La sua linea politica prevede l’apertura ai socialisti. Il partito nuovo che egli ha creato è ormai in mano alla terza generazione, i giovani segretari provinciali venuti dal movimento giovanile.
È a questo punto che nasce l’anima doroteo-repubblicana della Democrazia Cristiana.
Fanfani è attivo, è un intelligente pianificatore, è un decisionista ed ha persino un caratteraccio. La sua politica di centro-sinistra trova forti opposizioni nel mondo cattolico. Il gruppo generazionale che ha conquistato il Partito è molto solidale e compatto, ma lo ha solo adottato come leader e rifiuta una direzione monarchica della DC, rimproverandogli il cumulo delle cariche.
Nasce così una regola non scritta, ma decisiva e repubblicana che i consoli sono due, uno fa il Presidente del Consiglio e l’altro fa il Segretario del Partito.
L’autore di questo reggimento è Aldo Moro, uomo di alte qualità intellettuali, molto riservato, molto ascoltato. Era sempre presente senza partecipare. L’ho conosciuto alla redazione di “Cronache Sociali”: non parlava mai, alla fine Dossetti gli dava la parola, Moro rispondeva con calma e con grandi pause, e poi si faceva quello che diceva lui.
Tenne un affettuoso distacco con Iniziativa democratica, non parlava mai male di Fanfani, ma neppure lo nominava. Era naturale che il gruppo della seconda generazione scegliesse lui come l’uomo di transizione, come aveva profetizzato Zolla, che già fin da allora era il fedele collaboratore di Scalfaro.
La spaccatura nel Partito fu grave e drammatica. Alla Domus Mariae, alcuni personaggi piangevano quando votavano contro Fanfani. La corrente di sinistra, la Base, che pure era nata contro Fanfani, si schierò con lui e non poteva non farlo, a causa della sua linea politica. E con lui si schierò la sinistra sociale delle Acli e della CISL, guidata da Pastore, che allora aveva un grande peso nella DC.
Al Congresso di Firenze del ’59, i dorotei (che si chiamavano così perchè si riunivano nel Convento di Santa Dorotea, come i giacobini che si riunivano nel Convento di San Giacomo) avevano la maggioranza del Congresso, ma alla conta dei voti Aimme, l’autista di Rumor, che bazzicava i delegati conosciuti durante le infinite peregrinazioni del vicesegretario in periferia, si accorse che non c’era la maggioranza. Nella notte Franco Salvi, della squadra di Moro, ricontò i voti con Rumor e Colombo, e scoprirono che avevano perso. Andarono a svegliare Segni, il quale in vestaglia andò a svegliare Andreotti e gli chiese di non votare per la sua lista, ma di votare per Moro. E Moro andò a svegliare Scelba. Andreotti e Scelba si sacrificarono. E Moro vinse.
Nel lungo periodo della transizione andò alla Presidenza del Consiglio Segni che divenne il capo riconosciuto dei dorotei e per una improvvida iniziativa di Gronchi, si pensò ad un esperimento di sinistra di Ferdinando Tambroni, esperimento che drammaticamente prese una strana colorazione di destra. Furono Pastore e Sullo, uomini delle minoranze di sinistra, a far cadere Tambroni.
Ma ecco dove era la grande qualità della Democrazia Cristiana: Moro che aveva vinto con i voti della destra che si opponeva al centro-sinistra fece un governo che preparava il centro-sinistra. E a chi lo fecero fare quel Governo? A Fanfani. Questo era il costume repubblicano della DC!
Le elezioni sarebbero state molto difficili. Si prevedeva che la DC avrebbe perso tutti i voti di destra. L’equilibrio fra Moro segretario del partito e Fanfani Presidente del Consiglio era delicatissimo. Io avevo lavorato alla propaganda di Fanfani del 1958 (Progresso senza avventure che ricordava il “Keine Adventure” di Adenauer), nel’63 feci preparare un bozzetto con le facce di Moro e Fanfani dipinte in stile cinematografico. Quando Franco Salvi ed io lo portammo a Moro, Moro lo guardò inorridito e disse: “Questo poi, mai!”. La DC non perse le elezioni e si fece il centro-sinistra.
Il periodo del centro-sinistra fu importantissimo nella storia italiana, per il suo significato di allargamento dell’area democratica e per le sue realizzazioni.
Ma non ebbe vita tranquilla. Perché fu combattutissimo dal Partito Comunista, ed odiatissimo dalla destra italiana che per merito della Dc non aveva una sufficiente rappresentanza nel Parlamento. Durante quel periodo fallì una riunificazione socialista, cominciarono i primi attentati, iniziò un grande e confuso sommovimento giovanile che avrebbe portato agli anni di piombo, ci fu il referendum del divorzio, e grandi agitazioni sociali dovute alla rapida industrializzazione degli anni ’60.
In questo periodo nasce la DC delle correnti. Fu certamente Moro a pensarla per utilizzare al meglio la sue vere qualità politica, che erano quelle del presentimento e della mediazione. Mentre Rumor aveva sempre avuto, dai primi incontri con De Gasperi alla fine del suo ultimo governo, una unica e determinata linea, quella del centro-sinistra, Moro seguiva un altro metodo, che lui chiamava “dell’attenzione”: pensava al centro-sinistra ma voleva arrivarci con tutta la destra moderata della DC. E quando realizzava il governo di centro-sinistra aveva già in mente che esso non potesse servire ad isolare il PCI ma piuttosto a risvegliarlo alle sue responsabilità. Per fare questo Moro non voleva essere a capo di una grande corrente di maggioranza. Anzi fu proprio lui a spezzare l’unità dei dorotei per costituire una piccola corrente che fosse, più che l’ago della bilancia, l’asse di equilibrio che utilizzava, mediava e componeva le spinte delle altre correnti.
Era una concezione che ricorda il volo del gabbiano o la tecnica aeronautica, che muove questo o quello degli alettoni per dirigere l’aeroplano nella direzione voluta.
In questo disegno il sacrificio dei Presidenti del Consiglio era ripetuto e continuo, ma amichevole e solidale. Si realizzò un centro sinistra, già preparato da Fanfani, dopo un governo Leone, durato una sola estate per studiare la temperatura. Dopo di lui Moro fa finalmente il Presidente del Consiglio e cede la Segreteria a Rumor. Rumor sarebbe stato già da anni il Segretario del partito se Fanfani non avesse commesso l’errore di tenere le due cariche di Presidente del Consiglio e di Segretario. Quando Rumor si era astenuto nel voto contro Fanfani, essendogli stato l’uomo più vicino, si era esiliato al Governo per non apparire come Bruto che aveva pugnalato Cesare. Ma ora diventava necessario al Partito per la sua vellutata, ma precisa, scelta di centro-sinistra.
Moro durò un tempo straordinario come Presidente del Consiglio, addirittura dal dicembre del ’63 al giugno del ’68, ma con ben tre rimpasti. Poi inizia la grande crisi del ’68. Torna Leone, con la sua autoambulanza, Rumor fa il Governo più difficile di quegli anni per la scissione dei socialisti, per le esplosioni della contestazione. Ci fu una scissione del Partito Comunista, impensabile prima di allora: quella de “il Manifesto”, ed una scissione della Democrazia Cristiana con Labor, impensabile prima di allora. Si annunciavano i tempestosi anni ’70.
Il sistema di compensazione tra nomine e correnti risultò utile, ma non evitò la tragedia.
Rumor tenne la Presidenza del Consiglio per poco più di due anni con ben tre Governi. Nel frattempo non aveva commesso l’errore di tenere la segreteria del Partito e l’aveva affidata a Piccoli. Una riunione a San Ginesio degli uomini della terza generazione facilitò l’ascesa di Arnaldo Forlani alla Segreteria. Forlani era l’espressione di esigenze nuove, ma era anche sostenitore di Rumor. Rumor fu il bersaglio del primo attentato della lunga serie degli anni ’70. Quando la sua energia si esaurì per le difficoltà di quel momento e per la freddezza di Moro che già pensava alla necessità di coinvolgere i comunisti, fu scelto Colombo, come il naturale successore di Rumor.
In quel momento il ciclone del divorzio investì la Democrazia Cristiana e tutti sentirono il bisogno di una guida più ferma di quella di Forlani al Partito e di Colombo alla Presidenza del Consiglio. Il “ Senato doroteo” si riunì a Palazzo Giustiniani e dall’accordo che prese appunto il nome di “Accordo di Palazzo Giustiniani” fu decisa una nuove segreteria di Fanfani con il compito di rinserrare le file e di pagare, con il referendum del divorzio, il nostro debito contratto con il mondo cattolico. (Montanelli scrisse su Fanfani il famoso articolo: “Rieccolo!”).
Questo mare tempestoso costringe la nave della DC a navigare di bolina cambiando spesso di bordo. Dopo Colombo che deve superare la prima crisi economica che sopravviene dopo il decennio favoloso degli anni ’60, viene Andreotti con un governo appoggiato a destra per la indisponibilità dei socialisti. Poi ancora Rumor che inciampa di nuovo sul problema del divorzio dal quale Moro si era saggiamente defilato, per essere di riserva nel governo successivo.
La funzione di traghettatore di Fanfani è finita e la sua segreteria viene investita da temi nuovi: Moro punta a ricucire con la sinistra e lo stesso Partito Comunista si rende conto che non può seguire la sinistra movimentista ormai sfociata nel terrorismo. Si crea di fatto una intesa fra i due grandi partiti contrapposti, chiamata impropriamente “compromesso storico”, ispirata da Moro.
L’assestamento all’interno della DC è difficile e questa volta l’equilibrio ed il metodo repubblicano-senatoriale vacilla. Viene sacrificato Fanfani e Moro pensa a Rumor come la persona adatta a guidare il partito nella perigliosa strada dell’intesa con i comunisti.
Anche qui spunta come elemento di disturbo la terza generazione. Bisaglia, erede della corrente di Rumor, pone il suo veto contro Rumor, veto che sarà fatale sia a Rumor rimasto solo, sia a Bisaglia che non gli potrà succedere, sia allo stesso Moro, che non fu difeso come Rumor lo avrebbe invece difeso. E per la prima volta in maniera incontrollata si sceglie un uomo non previsto, ma che si rivelerà importantissimo: Zaccagnini.
Andreotti che nella DC aveva una posizione di destra e di garanzia del mondo cattolico più conservatore, si assume il compito di fare il Governo sostenuto dall’astensione dei comunisti. Si va ad un Congresso tempestoso, dove vince la mozione che propone l’elezione diretta del Segretario del partito. Lo scontro è finalmente frontale e fatto in una grande assemblea e non negli accordi fra i “senatori”. La scelta è fra Forlani e Zaccagnini. Zaccagnini vince, la linea Moro si afferma, il governo Andreotti comincia a navigare, la DC di Zaccagnini scende in piazza con le Feste dell’Amicizia. Nel settembre del ’77 i treni che portavano l’anima popolare della DC alla prima festa dell’Amicizia di Palmanova si incrociavano con i treni degli extra-parlamentari che andavano a Bologna a scontrarsi con la solidissima fortezza del partito Comunista. Sull’orlo della guerra civile.
L’anno dopo Moro viene ucciso dalle Brigate Rosse. Dopo la morte di Moro si conferma per una necessità storica il secondo Governo Andreotti (IV). Si dimette Leone, che non aveva trovato la giusta misura per gestire la sorte di Moro. Pertini viene eletto Presidente della Repubblica: nel suo discorso dirà: “Un altro avrebbe dovuto essere qui al mio posto”, alludendo a Moro.
L’equilibrio senatoriale della grande DC finisce con la morte di Moro. I governi che vengono dopo appartengono già alla terza generazione, quella che gestirà il grande tramonto.
Per favore, non paragonate mai più qualsiasi cosa dell’attuale politica con il grande metodo repubblicano dei dorotei. Compreso il loro gentile pugnale.
Bartolo Ciccardini
Giornalista, Direttore Editoriale e Fondatore di MNews.IT
Cell.: +39 338 10 30 287
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