Il Premio Troccoli – Magna Grecia Edizione 2014 renderà omaggio a Giuseppe Selvaggi, a dieci anni dalla scomparsa. La manifestazione è fissata per venerdì 16 maggio prossimo, ore 18.00, al Teatro Comunale di Cassano Ionio.
A relazionare sul poeta, giornalista, intellettuale calabrese vissuto a Roma, sarà lo scrittore Pierfranco Bruni, che percorrerà il suo viaggio culturale anche attraverso alcune lettere inedite e altri documenti.
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Giuseppe Selvaggi, a 10 anni dalla scomparsa, il poeta che nel 1948 parlò della "scoperta dell'Europa"
di Pierfranco Bruni
Storicizzare Giuseppe Selvaggi come intellettuale, come giornalista, come critico d'arte nella temperie di questo nostro Novecento passato e infuturato non è cosa da poco. La scelta: il giornalista o il critico d'arte. Ovunque si possa leggere o rintracciare segni emerge il poeta con una liricità strappata sulle vele dell'anima. Ma di quel militante della cultura, di quell'operatore delle idee e del pensiero sempre in movimento, di quell'uomo che andava oltre l'ansia del reale bisogna appunto rileggere, egli restìo a qualsiasi celebrazione e a qualsiasi presentazione dei suoi libri e dei suoi lavori, la tensione lirica che ha sempre accompagnato il suo viaggio e la sua storia di uomo. Un poeta che è dentro l'uomo e l'uomo che senza la poesia diventa evanescente.
Un personaggio che è stato testimone e protagonista del suo tempo. Era nato in Calabria, a Cassano Ionio (sulle rive della Magna Grecia) il 29 agosto del 1923. E' morto a Roma il 26 febbraio 2004 dove viveva dagli anni universitari. Un percorso in cui la parola aveva un senso. Ogni parola è una testimonianza per un poeta.
Il suo primo libro di poesie risale al 1941 Fior di Notte (ha avuto numerose edizioni). Al 1961 risale invece Canti Jonici e al 1984 Corpus. Ha scritto testi di fondamentale importanza estetica ed etica come Scoperta dell'Europa la cui prima edizione è del 1948 e Sette corrispondenze calabresi che è del 1962. Critico e storico dell'arte. Ha scritto numerosi testi per artisti e ha firmato una diversità di mostre.
Dal 1944 ha fatto parte della stampa parlamentare e ha lavorato nei quotidiani "Italia Sera", "Il Tempo", "Il Messaggero", "Il Secolo XIX". Ha diretto la rivista francese "Planéte". E' stato direttore della rivista di cultura politica "Idea". E' stato un riferimento per molte generazioni che hanno visto in lui un maestro. Stile e formazione in un intreccio in cui la poesia è stata sempre un incontro.
Un viaggio nel quale la partenza e il ritorno sono sempre state delle metafore nel cerchio del tempo. Selvaggi ha sempre edificato la sua scrittura e la sua giornata di uomo nella dimensione di un bisogno di orizzonte che è stato quello del mito delle radici, della sacralità dell'attesa, del destino di ritrovarsi. Il mistero come sentiero magico di una poetica dentro la vita. Come sono sibillini quei versi di Corpus: "Ricomincio ad amarti perdendoti".
Ma c'è di più. Giuseppe Selvaggi ha tracciato una linea generazionale nella cultura calabrese e italiana. E' stato non solo un poeta e un giornalista ma un maestro di stile. Un personaggio che ha saputo raccontare la storia di una generazione. Generazioni che hanno ascoltato la sua voce, la sua testimonianza, il suo acume critico e la sua pazienza. La parola è costante pazienza.
Giuseppe Selvaggi (personalità di estrema importanza della poesia italiana, del giornalismo, della critica) può essere considerato, a giusta ragione, un riferimento sicuro nel contesto della dialettica letteraria ed artistica e di quel mondo culturale che ha attraversato gli ultimi Sessant'anni. Un poeta raffinatissimo e un attento critico d'arte che ha cercato sempre di sviluppare un confronto all'interno dei processi storici degli ultimi decenni del nostro Novecento.
Era stato amico di Corrado Alvaro, con il quale aveva condiviso impegni giornalistici. La Calabria di Alvaro, di Troccoli, di Grisi, di Selvaggi. E' una Calabria della memoria. Selvaggi in Scoperta dell'Europa cesellava: "…la Calabriaè un paese come il resto del mondo. Per questo è bella ai calabresi e agli altri. Certo che i suoi abitanti sono camminatori e il novanta per certo hanno i piedi larghi. Buona razza di camminatori". Ma nei suoi scritti non c'è mai populismo. Oltre le regole della descrizione per restare nella parola che comunque non offre certezze.
Selvaggi: "Un fatto è diverso, da ogni paesetto si vede il mare. Questo è un dono. E quaggiù in montagna si crede al mare di dove sorge e tramonta il sole ogni giorno. La Calabriaè un arco del sole tra due mari.
"Qui si spera. Per esempio: quando il nemico gettava sui covoni di grano le piastrine incendiarie i contadini meditavano e pregavano. E un giorno ci fu il discorso sull'aia: - Il grano si deve cuocere per mangiarlo, e buonasera al fuoco. - I contadini si sono messi a ridere e hanno creduto nei campi.
"Qui si crede. Quando si combatteva sul mare dalla riva i contadini e i pescatori e le loro donne ad ogni cannonata pregavano: Amen. Così sia.
"Ma anche se si digiuna senza dirlo e se gli ulivi cascano di abbondanza, la penisola di Calabria è un qualsiasi paese del mondo. Perché in tutto il mondo si crede e si spera.
"Tuttavia quaggiù il grano si miete anche quando c'è la neve sul campo".
Uno spaccato in cui metafora e nostalgia si incontrano grazie ad elementi che sono letterari ma anche profondamente esistenziali. Selvaggi ha sempre intrecciato linguaggio letterario e funzione etica. Si pensi ai suoi rapporti con un altro scrittore della sua terra: Giuseppe Troccoli. Tra Troccoli e Selvaggi ci fu sempre un dialogo molto aperto. Vita e letteratura. Storia ed emozione.
In un articolo del 1951 apparso su "il Tempo" Selvaggi riferendosi ai racconti di Troccoli dal titolo: Lauropoli e soffermandosi, in modo particolare, sui personaggi di questi racconti, così annotava: "Tutte queste figure sono la Calabria, è fatta così la Calabria: un ammasso di figure umane contorte dalla miseria, dalla superstizione, dalla vanità dei piccoli casati paesani, dal dolore accumulato in secoli di rinunzie, contorte dalla necessità di andare lontano (...) i calabresi nel mondo: quegli esuli che siamo tutti noi fuori dalla Calabria, che con una rapidità assimiliamo quello che nelle altre regioni troviamo di utile alla nostra affermazione di uomini. Nasce così quello stacco evidente che un calabrese riesce a produrre nella propria vita e negli usi con un semplice viaggio oltre i monti della Lucania".
Alvaro, Troccoli, Selvaggi. Generazioni, appunto, che hanno vissuto l'età della diaspora e hanno raccontato il dolore della separazione, un dolore che si è fatto consapevolezza ma anche mistero. Giuseppe Selvaggi è uno scrittore nel solco della "tradizionale". Un poeta dell'amore cantato sul ritmo degli abbandoni perché vissuto senza le maschere o le finzioni che molta letteratura ha.
Poeta che ha saputo usare il linguaggio spezzando la parola dentro il sentiero magico del sentimento. Poeta, Selvaggi, che ha saputo usare la parola perché la parola non è solo l'espressione di un sentimento ma è anche la lavorazione di un intreccio tra il dolore di una storia e la sofferenza del racconto. Il tracciato di una vita lungo gli incroci della cultura. si pensi anche ai suoi rapporti con Carlo Belli sui temi legati al Mediterraneo e alla Magna Grecia. (In un libro pubblicato da "Il Coscile" abbiamo riportato alcuni documenti inediti tra Selvaggi e Belli, riferiti proprio al rapporto tra cultura e politica inerenti la questione meridionale).
Ma i legami con tutta la cultura letteraria di questi decenni sono testimonianze vive e vitali. Non si era, comunque, mai allontanato dal suo impegno di giornalista parlamentare pur dedicandosi costantemente alla letteratura e all'arte il giornalismo parlamentare rappresentava un tassello per capire e penetrare il quotidiano.
Il suo Fior di Notte resta un punto centrale nella sua ricerca di uomo e nella sua tensione poetica. E proprio in riferimento a ciò ne discutemmo in una nostra corrispondenza. In una testimonianza a me diretta datata 13. 12. 2000 Selvaggi mi scriveva: "Ti mando una delle quattro copie che ho del nostro Fior di Notte. Unisco, per vanità e curiosità, una lettera di Luzi, che avevo dimenticato e sperduta. Riguarda Fior di Notte. Ma, ormai, io mi preparo a Fior di Morte. Con affetto, il tuo Giuseppe Selvaggi". Una pagina profetica. Un documento inedito che ho inserito nel testo prima citato.
Ma le lettere di Selvaggi, soprattutto l'ultima che risale all'aprile del 2003, sono un documento che sembrano siglare un testamento esistenziale e culturale. Lettere autografe che raccontano frammenti della sua vita in un costante confronto con la letteratura e l'arte. Quasi una profezia. La contemplazione e la parola. E la parola lascia sempre il passo all'attesa, alla meditazione e, chiaramente, alla contemplazione. L'armonia nella sua disarmonia. Un poeta che si cercava per allontanarsi dalla cronaca senza però dimenticarla.
Un poeta, Selvaggi, che ha sempre avuto uno stile di vita. La sua poetica entrava dentro la pagina, dentro la parola, dentro quella malinconia velata da antiche nostalgie. Era un amico che conosceva l'amicizia e il darsi. Oltre la letteratura resta la memoria di un uomo. Un uomo che non si è mai assentato dal quel ruolo che lo poneva come elemento caratterizzante in un rapporto tra cultura nazionale e cultura mediterranea. Ma in uno scrittore (in fondo va considerato tale) tutto sommato cosa resta? Resta l'uomo che ha saputo intrecciare una lunga metafora, che è quella dell'esistere, con la scrittura. La scrittura come sapienza ma anche come ancoraggio a quella terra - madre tanto cantata nei suoi versi.
Con il suo viaggio e dentro il viaggio. Aveva proprio ragione quando in una sua lettera del 1990 (avevo curato allora una nuova edizione di Fior di Notte con un mio saggio critico) sottolineava: "Necessita scendere nel senso del terrore e di luce del verso. Porsi innanzi ad uno specchio interiore e visivamente esterno. Toccarsi. Leggi e dimentichi qualcosa". Un poeta. Oltre la parola stessa, nel tempo che recita memoria. Le ancore e le lontananze. Allora. La poesia è destino. Ma la poesia era anche fatica. Me lo aveva confessato in più occasioni. La fatica di vivere la scrittura. I suoi versi sono nell'indefinibile viaggio di una nostalgia che raccoglie i segreti e le attese. Giuseppe Selvaggi in quel "fior di notte" aveva già creato il suo "corpus" dentro l'anima - carne, dentro la terra - radici. Delle matrici che hanno reso il poeta un viaggiatore nel tempo e del tempo.
Il viaggio del poeta è nelle coordinate di alcuni fattori come la riappropriazione di uno sguardo, come il recuperare nella parola un linguaggio che è anche simbolico, come il definire la giovinezza un mito che resiste alla poesia ma si infrange all'urto con il tempo, come il saper ascoltare nel silenzio dell'attesa i paesaggi scomparsi ma che ci hanno appartenuto. Tutto un mondo in cui il sentimento poetico è un'ala di farfalla che riusciamo a capire solo in alcuni istanti e poi si trascorre il cammino rincorrendo l'istante. L'istante che non c'è più ma che continua a vivere dentro i mari delle nostalgie.
Il misterioso incanto della poesia è una alchimia che ci pone davanti a due sentieri: al naufragio – oblio, all'attesa – speranza. Ma tutto ciò chiede rivelazione. In fondo la parola o il silenzio dei linguaggi della parola sono rivelazione. E per un poeta come Selvaggi sono una iniziazione nel sacro e nel simbolo nei lunghi crepuscoli di una nostalgia che si lascia ascoltare in quella metafora che è la poesia.
Giuseppe Selvaggi e Pierfranco Bruni
Selvaggi, Bruni, Gasparri, Fava
L'ultima lettera di Selvaggi indirizzata a Bruni
Un autografo di Giuseppe Selvaggi
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