17 LUGLIO 2014 - Un bracciante, Francesco Antonio Alvaro, di 39 anni, è stato ucciso, a Sinopoli, in un agguato portato a termine con numerosi colpi d'arma da fuoco mentre stava accudendo alcuni animali. Il 4 giugno del 2001, Alvaro aveva assassinato a coltellate la moglie Domenica Penna (23) mentre era ricoverata in ospedale. Dopo un periodo di detenzione era stato scarcerato. Lascia due figli. Secondo gli investigatori era imparentato con esponenti della cosca di 'ndrangheta degli Alvaro. Indagano i carabinieri della stazione di Sinopoli agli ordini del maresciallo Francesco Montalbano, coordinato dal capitano Maurizio De Angelis, comandante della Compagnia di Palmi, coordinati dal p.m. Giulia Masci, che si muove sotto le direttive del procuratore capo della repubblica di Palmi, f,f,.
SINOPOLI (REGGIO CALABRIA), IL BRACCIANTE AGRICOLO FRANCESCO ANTONIO ALVARO DI 39 ANNI, VEDOVO, DUE FIGLI, AMMAZZATO A COLPI DI FUCILE CARICATO A LUPARA E ‘FINITO’ CON UN COLPO DI PISTOLA IN FACCIA, NELLA CAMPAGNE DI SINOPOLI, NEL CORSO DI UN AGGUATO DI CHIARO STAMPO MAFIOSO, MA NON ERA UN BOSS DELLA ‘NDRANGHETA, NÉ AVEVA FREQUENTAZIONI COMPROMETTENTI
Domenico Salvatore
SINOPOLI (rc)Un’altra sparatoria nella cittadina di Paolo Ruffo di Calabria, conte di Sinopoli, principe di Scilla…. Nella cittadina di Paul Violi, mammasantissima della ‘ndrangheta di Montreal, ucciso all’interno del bar “Reggio” il 22 gennaio del 1978, figlioccio di Vic Cotroni, originario di Mammola, capo dei capi dei ‘Locali’ del Canada, fiduciario di Joe Bonanno. Un nuovo morto, ammazzato nei pressi del cimitero, dove fu trovato agonizzante il giovane Domenico Cutrì, sposato con Grazia Alvaro e quindi, genero del presunto capobastone locale, ‘don Carmine’ Alvaro, sforacchiato dal piombo.Qui gladio ferit, gladio perit ? Per l’omicidio della moglie, reo confesso arrestato, processato e condannato, espiò undici anni di galera fra carcere ed arresti domiciliari. Dice Wikipedia che…”Sinopoli è un comune italiano di 2.115 abitanti in provincia di Reggio Calabria in Calabria. Storia. Il territorio di Sinopoli in antichità fu colonizzato dai Greci, che gli diedero l'attuale nome di Sinopoli (Xenòpolis, Sinopolis) (come altri centri d'origine greca che recano questo nome). Successivamente fu sotto l'impero romano e la lingua cominciò a latinizzarsi. Trovandosi ai piedi dell'Aspromonte il paese fu sempre isolato ma il duro lavoro dei suoi abitanti permise alla comunità di sopravvivere. Durante la guerra il paese fu bombardato dagli aerei statunitensi ed andarono distrutte molte case, la chiesa e l'ospedale, oltre alla perdita di molti abitanti. La cittadina così come il resto della Calabria soffre del problema 'Ndrangheta infatti nel paese operano alcune 'ndrine come quella degli Alvaro che hanno inquinato persino la Pubblica amministrazione e ciò ha determinato nel 1997 lo scioglimento del Consiglio comunale da parte del Presidente della Repubblica per infiltrazioni mafiose. Persone legate a Sinopoli. Giuseppe Pizza, segretario politico della Democrazia Cristiana e sottosegretario di Stato all'Istruzione, all'Università ed alla Ricerca nel Governo Berlusconi IV. Stefania Bivone, Miss Italia 2011. Economia. Il paese produce frutta, verdura, fichi secchi, legna, formaggio, vino, carne, olive, olio d'olivo. Sinopoli è inoltre circondato da molte sorgenti d'acqua minerale, ognuna con un proprio gusto e caratteristiche minerali.”. Secondo una prima sommaria descrizione della dinamica dell’ efferato, delitto, effettuata dai carabinieri della locale stazione, diretta dal maresciallo Francesco Montalbano, il pastore Francesco Antonio Alvaro di 39 anni, sarebbe stato ucciso a colpi di lupara e finito a colpi di pistola alla testa. Rabbrividiti i militari che pure per mestiere, sono avvezzi a certe scene lugubri. Inorridito per lo spavento ed il raccapriccio, soprattutto il fratello della vittima, che preoccupato per l’ingiustificata e prolungata assenza del congiunto, forse anche temendo il peggio, si era recato nelle campagne ed ha trovato il pastore, massacrato di colpi d’arma da fuoco.
La vittima, che era stata vista la sera prima in paese, aveva un appuntamento con qualche conoscente? Il medico legale giunto sul posto, per la perizia necroscopica esterna sul cadavere e l’autopsia, che verrà eseguita oggi o lunedì, a cura del perito settore, nominato dal Tribunale di Palmi, dovranno chiarire senza ombra di dubbio l’ora ed il giorno in cui è avvenuto l’omicidio. Dubbi rimangono sulla dinamica della sparatoria. Prima ipotesi. Il morto aveva un appuntamento con qualche persona o due che conosceva ed ha intavolato una lunga discussione sfociata in alterco e sparatoria finale. Seconda ipotesi, i killers incaricati da chi e perché, di eseguire una missione di morte, sangue, rovina e distruzione, conoscevano bene la vittima designata. Sapevano delle sue abitudini. L’hanno pedinato in aperta campagna e seguito fino al luogo dove il pastore teneva le sue pecore; oppure stavano nascosti dietro una siepe. Giunto a tiro, hanno aperto un fuoco d’inferno. La vittima colpita alla testa ed al tronco è stramazzata al suolo in un lago di sangue. I killers dopo aver eseguito gli ‘ordini superiori’, si sono dileguati, prima che si chiudesse il cerchio delle forze di polizia. Di solito Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza. Una ‘cintura militare’ intorno al vasto comprensorio. Alla ricerca dei sicari. Non vi sono, allo stato, novità degne di nota sui posti di blocco volanti e sulle perquisizioni domiciliari dei pregiudicati della zona, che sono tanti o sugli stub e sugli alibi-orario. Nemmeno è stata ritrovata una macchina bruciata od uno scooter, servito per la fuga dei due giustizieri della notte. Non vi sono stati testimoni. Almeno così sembra. Ammesso per assurdo che, in una zona ad alta densità mafiosa, qualche ‘scheggia impazzita’ fosse disponibile a sottoscrivere un verbale e poi a testimoniare in Tribunale. La indagini per risalire agli esecutori materiali del delitto, al movente ed agli eventuali mandanti, partono in salita. L’omertà che cuce le bocche a doppia mandata per paura di rappresaglie e vendette, regna sovrana. Sul posto oltre al medico legale ed alla ditta del caro estinto, per la rimozione del cadavere, trasportato all’Istituto di Medicina Legale, anche il p.m. Giulia Masci, che si muove sotto le direttive del procuratore capo della Repubblica di Palmi, Emanuele Crescenti. Dopo l’autopsia la salma, verrà restituita alla famiglia per la celebrazione dei funerali, a cura di don Antonio Fazzolari, che si svolgeranno a Sinopoli in forma pubblica. Salvo diversa decisione per motivi di ordine pubblico e sicurezza, del questore di Reggio Calabria, Guido Nicolò. Si parte dal dossier personale, fascicolo o cartella giacente presso gli uffici giudiziari. Il 4 giugno del 2001, il pastore, uccise a coltellate la moglie, Mimma Penna di 23 anni, all’interno di una corsia dell’ospedale “Scillesi d’America”; nosocomio della cittadina di Scilla, piccola capitale internazionale del turismo di massa, patria dei Ruffo di Calabria. Pare sia imparentato con gli Alvaro di Sinopoli, invischiati in operazioni della DDA di Reggio Calabria. Per le modalità di esecuzione e per la quantità del piombo impiegato, sembrerebbe un chiaro omicidio di stampo mafioso. Tuttavia non era un boss della ‘ndrangheta e non emerge neppure, che avesse frequentazioni a rischio. Tranne il cognato Rocco Frisina, presunto uomo d’onore, ferito a Delianuova davanti ad un bar del centro aspromontano con numerosi colpi di pistola, il 3 gennaio del 2008, esplosi da corta distanza da un sicario, che poi si è dato alla latitanza, ma venne catturato. Subito soccorso da alcuni passanti, il Frisina venne trasportato all’ospedale di Polistena, da dove è stato poi, fu trasferito nel Reparto di Rianimazione degli Ospedali Riunitidi Reggio Calabria, dov’è morto la sera del 5 gennaio 2008. Poche comunque le probabilità, che il fascicolo rimbalzi sul tavolo della DDA reggina diretta dal procuratore capo della Repubblica, Federico Cafiero De Raho. Almeno in questa fase.
Francesco Antonio Alvaro, ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto? Ha parlato troppo? Ha ‘pestato i piedi’ di qualche mafioso che conta nel mondo della malavita? A sfogliare le cronache, sono tanti i pastori ammazzati a colpi di lupara e pistola. Perchèeeeee? I Carabinieri hanno una brutta gatta da pelare. Devono interpretare due segnali eloquenti e imboccare la pista giusta, per arrivare alla soluzione del mistero: il pastore è stato ucciso nei pressi del cimitero; il pastore è stato prima ucciso a colpi di lupara e poi sfigurato a colpi di pistola in bocca, se non sul viso. Francesco Antonio Alvaro era imparentato con i boss omonimi, ma non aveva niente a che spartire con loro. Queste, sono le prime risultanze. Siamo in una zona dove si spara per poco o niente e la vita umana non vale nulla. Un territorio in mano alle cosche della ‘ndrangheta, affermano i rapporti di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza e la relazione annuale della Commissione Parlamentare Antimafia, oggi diretta dall’onorevole Rosy Bindi. Anche contro i Carabinieri, come ci racconta il luogotenente Cosimo Sframeli, scrittore e giornalista…” Il 17 giugno 1996, alle ore 23.00 circa, il Vicebrigadiere Salvatore COLTELLLO riceveva, sull’utenza della caserma, una telefonata anonima che segnalava, in località “Ponte Crasta”, la presenza di individui sospetti nei pressi di una moto Ape. Il Sovrintendente avvisava subito il Comandante della Stazione, Maresciallo Capo Pasquale AZZOLINA, ed entrambi, in uniforme e con l’Uno di servizio, si recavano nella località indicata. Lì notavano, nei pressi di una moto Ape, due giovani, conosciuti da loro come i fratelli D’AMATO, cui uno minorenne di sedici anni, intenti a smontare e trafugare pezzi del motore dal predetto veicolo in quel luogo accantonato a seguito d’incidente stradale avvenuto il giorno prima. Alla vista dei Carabinieri i due fratelli nascondevano alcuni attrezzi all’interno della propria autovettura parcheggiata affianco. Il Maresciallo AZZOLINA procedeva al controllo dei due giovani e, constatando che dentro la loro autovettura vi erano vari pezzi di motore, decideva di accompagnarli in caserma. Li invitava a salire sul mezzo militare, condotto dal Vicebrigadiere COLTELLO, mentre egli stesso si poneva alla guida della Ritmo, l’autovettura dei due ladri. L’invito fu accolto senza cenno di opposizione dal fratello minorenne. Di contro, Rocco D’AMATO, fulmineamente, estraeva dalla cintola una pistola Beretta calibro 7.65, illegalmente detenuta e portata, ed esplodeva, da distanza ravvicinata, alcuni colpi di pistola all’indirizzo del Comandante. AZZOLINA, benché colpito in varie parti del colpo, estraeva, velocemente, la propria pistola d’ordinanza ma, prima di poter far fuoco, era attinto da un altro proiettile che lo faceva stramazzare a terra, esamine. Il Vicebrigadiere COLTELLO, a pochi metri, a sua volta, era colpito da un colpo di pistola esploso dalla pistola del D’AMATO. L’omicida, avendo raccolto da terra la pistola d’ordinanza del Maresciallo, si dava a precipitosa fuga, alla guida della sua Ritmo, insieme al fratello minore. Il Vicebrigadiere COLTELLO, nonostante ferito, si avvicinò al suo Comandante per cercare di poter dare aiuto. Si accorgeva, intanto, che i due, dopo aver percorso circa 200 metri, scendevano dall’autovettura e ritornavano indietro, verso di lui, con il chiaro e preciso intento di ucciderlo. Erano messi in fuga definitivamente per il ripetuto uso della pistola d’ordinanza del Vicebrigadiere che sparava contro di loro.
A quel punto, COLTELLO non poté che constatare la morte del suo Comandante. Si recava in caserma da dove, ai limiti della resistenza, riusciva a lanciare l’allarme. In seguito, i colleghi lo accompagnarono all’Ospedale di Scilla, dove fu sottoposto a intervento chirurgico. Una notte e un giorno per pensare. Poi, la resa. “Mio figlio vi aspetta”. Al telefono una voce stanca. Era quello che i colleghi di Pasquale AZZOLINA attendevano. Sono le 17:00 di martedì. Dopo sedici ore la caccia all’uomo si era conclusa. Rocco D’ Amato, venti anni appena, si consegnava nelle mani del Colonnello Gennaro NIGLIO. E confessava: “Ho sparato al Maresciallo istintivamente, ho perso il controllo di me stesso”. Contestualmente, erano recuperate le armi, una pistola calibro 7.65 con matricola abrasa, usata per il delitto, e una pistola calibro 9 parabellum, in dotazione al Maresciallo e per mezzo della quale aveva tentato una coraggiosa, quanto vana, reazione di fuoco contro il suo omicida.Un delitto assurdo che lasciava orfane tre ragazze, Nadia di diciotto anni, Angela di quindici, Vanessa di sei, che si stringevano attorno alla loro mamma, Marianna CANDELA, una donna minuta senza più una lacrima da versare per il marito divenuto orgoglio di un paese, e che lei aveva sempre amato e sostenuto. Un atto sanguinario senza un movente plausibile e che solo per miracolo non fece un’altra vittima, il Vicebrigadiere Salvatore COLTELLO (trentaquattro anni), padre di Sonia (otto anni) e di Federica (due anni). Il Maresciallo AZZOLINA conosceva bene quel Rocco avviatosi su una brutta china. Più volte lo aveva ripreso, invitandolo a cambiar vita. “Cercati un lavoro”, gli diceva. E lui niente. Gli piaceva vedersi additato come balordo. Lavorava su commissione. Di notte. Furti di autoradio, motori d’auto che rivendeva. Anche lunedì sera andò così. “Rocco”, gli disse il Maresciallo, “andiamo in caserma”.I Carabinieri non si aspettavano nessuna reazione. Solo qualche formalità e avrebbero rispedito a casa i due ragazzi. Invece, no. Fu un attimo. Il giovane estrasse l’arma dalla cintola e sparò contro AZZOLINA colpendolo al fianco e al torace. La morte fu immediata. Poi D’AMATO puntò la pistola, alle spalle, contro il Vicebrigadiere e fece fuoco. Non arrivò a finirlo e fuggì verso i crinali aspromontani. Con le poche forze rimastegli il Vicebrigadiere COLTELLO riuscì a giungere in caserma ed avvisare i colleghi di Sinopoli, il paese vicino, ai quali raccontò i particolari della sparatoria e fornito i nomi degli assassini. Poi svenne. La casa dei D’AMATO, in un baleno, fu accerchiata da centinaia di militari. Dentro, Alessandro era ancora in piedi. Si mostrò stupito quando i Carabinieri gli strinsero le manette ai polsi. Poi, cedette e confessò la sua partecipazione alla sparatoria, scaricando sul fratello la responsabilità dell’omicidio. Nella mattinata, il Comandante Generale dell’Arma, Luigi FEDERICI, giunse a Sant’Eufemia per esprimere il cordoglio dei Carabinieri: “E’ una ferita profonda nel cuore dell’Arma”, disse il Generale, “e credo di tutto lo Stato”. Anche il Capo dello Stato rese omaggio alla salma del Sottufficiale. Le hanno detto: “Tuo padre è stato ucciso mentre faceva il suo dovere”. Ma Vanessa, con i suoi sei anni e gli occhi smarriti, si aggrappava alla madre e piangeva solo perché il suo papà non lo avrebbe rivisto mai più. Gelo e divise riempivano le stanze di quella casa, dell’alloggio di servizio, proprio accanto alla caserma, dove la famiglia del Maresciallo Pasquale AZZOLINA, viveva da tempo.
Morì per mano di un balordo. Da dodici anni rappresentava la legge in terra di mafia e aveva avuto a che fare con esponenti di spicco della ‘ndrangheta. Né agguato, né imboscata, né esecuzione. “Li conosceva, li conosceva bene; due fratelli, gentarella, per questo ha allentato le difese”, diceva il Colonnello Gennaro NIGLIO, Comandante Provinciale dell’Arma. Ma il balordo, che aveva venti anni, che viveva di furtarelli e di piccolo spaccio, che rubava le autoradio e quando poteva un’automobile per poi smontarla e rivenderla pezzo per pezzo, che l’altra notte fu sorpreso con il fratello sedicenne proprio mentre stavano “cannibalizzando” una moto Ape incidentata e lasciata su una stradina dismessa all’inizio del paese, uccise il Maresciallo e ferì il Vicebrigadiere. L’incubo della trappola di mafia durò poco. Ma la tragedia rimase, tutta intera. Per le famiglie, per l’Arma, per il paese, 4500 abitanti, che la mattina ebbe una sveglia glaciale. Perché quel Maresciallo, dopo tanti anni di servizio a Sant’Eufemia, era uno di loro. Le figlie, come la moglie, vivevano e condividevano la vita di quel microcosmo. L’Amministrazione comunale preparò e affisse un manifesto che rendeva bene i sentimenti della gente: “Una vicenda terribile e assurda… un atto di barbarie scaturito dall’emarginazione e dall’ignoranza ha stroncato la vita di un uomo buono nell’esercizio del suo dovere… al Maresciallo AZZOLINA diciamo grazie… ha dato la vita per la nostra città che non lo dimenticherà”.E in Municipio fu allestita la camera ardente, da dove partirono i funerali che si svolsero nella Chiesa Madre del paese, in piazza Vittorio Emanuele. Trama e attori di questa tragedia vera furono tutti noti.Il Maresciallo Capo Pasquale AZZOLINA fu decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare, alla Memoria, con la seguente motivazione: “Comandante di Stazione distaccata in territorio caratterizzato da alto indice di criminalità, veniva fatto segno – unitamente a militare dipendente ad improvvisa e violenta azione di fuoco da parte di due malviventi sorpresi in flagranza di furto. Benché colpito in più parti del corpo, con elevato coraggio e grande determinazione, tentava di reagire con l’arma in dotazione ma, colpito ancora una volta in parti vitali, si accasciava esamine al suolo. Fulgido esempio di alto senso del dovere ed elevate virtù militari, spinte fino all’estremo sacrificio. S. Eufemia d’Aspromonte (RC), 17 giugno 1996”.Tante le operazioni di ‘ndrangheta contro il potente casato di mafia degli Alvaro (“Carni i cani” “Pajechi”, “Merri”, “Pallunari”, “Testazza e Cudalonga”)alleati dei Piromalli di Gioia Tauro e dei Crea di Rizziconi…“Rete”, Cent’anni di storia, Matrioska 1 Matriosika 2, Virus, Rilancio, Arca, Paiechi, Meta, Prima luce, Smirne, Cafè de Paris, Crimine, Carni ‘i cani, Xenopolis…Una zona ad alta densità mafiosa, dove si spara per uccidere. Dove circolano tante armi, come dimostrano le operazioni di sequestro di ben numerosi fucili (anche quelli dei cacciatori rapinati),ed arsenali… kalashnikov, mitragliatrici, pistole, mitragliette e bombe.
Chi si azzarda a combattere contro la mafia, da questa parti passa per infame e traditore. Anche il sindaco Domenico Luppino, un sindaco modello dell’ Aspromonte: la lotta alla 'ndrangheta, gli costa nove attentati in quattro anni e mezzo. Gli hanno fatto esplodere la tomba del padre, gli ammazzarono il cane, gli distrussero i campi d'ulivo, gli incendiarono il furgone, lo obbligano a girare scortato, è costretto a trasferire la famiglia a Reggio Calabria. Il suo ultimo atto pubblico: l'adesione alla marcia di Locri. Il 5 novembre 2005 sfila con il gonfalone del paese, contro la 'ndrangheta che ha appena ucciso Franco Fortugno, vice presidente del consiglio regionale. “Mi hanno dimissionato; ho perso la mia battaglia. Sono cresciuto in un clima di minacce. La mia famiglia subiva attentati quando avevo soltanto dieci anni. Solo per un caso fortuito, una volta, sventarono il mio sequestro. Abbiamo sempre cercato di mediare, come fanno in tanti, tentando di arrivare a un compromesso. L'ho fatto anch'io. Poi a 40 anni mi sono stancato. Quando mi hanno eletto, pensavano che l'avrei tenuta la testa bassa, come sempre. Perché sono stato eletto con i voti buoni e con i voti mafiosi. Bisogna capire: chi fa il sindaco, qui, ha sempre un conto da saldare. E io non l'ho mai saldato: questo vuol dire alzare la testa. Anche perché non ero andato in giro a chiedere voti. Così il meccanismo s'è inceppato: la 'ndrangheta pensa che la cosa pubblica sia un bene da razziare. Ma di razzie, finché ero sindaco, non se ne facevano. Essere infame è peggio che essere cornuto. Rappresenta il massimo disvalore di un individuo. Ogni cosa ti è preclusa. Perdi qualsiasi dignità. E qualunque cosa ti accada, anche la peggiore, è legittima: te la sei meritata”.
Domenico Salvatore